LE MANSIONI DEL LAVORATORE E IL DEMANSIONAMENTO: POSSIBILITÀ E LIMITI

Il contratto di lavoro sottoscritto al momento dell’assunzione indica l’inquadramento del lavoratore in una categoria e in un livello del contratto collettivo applicato al rapporto. Nel contratto di lavoro vengono inoltre indicate le mansioni che il lavoratore dovrà svolgere.

Dal momento che il demansionamento può avere delle ripercussioni sulla dignità e sulla capacità professionale dei lavoratori, è opportuno chiedersi se nel nostro ordinamento il dipendente può essere demansionato. Il datore di lavoro ha il potere di adibire un lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle contrattualmente previste?

Per demansionamento si intende l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle individuate e stabilite nel contratto di assunzione.

I RIFERIMENTI NORMATIVI DEL DEMANSIONAMENTO

La legge prevede che il demansionamento può essere legittimo solo in alcune ipotesi e all’interno di certi limiti previsti dall’art. 2103 del codice civile, il quale è stato modificato nel 2015 con il Jobs Act.

La normativa previgente disciplinava un regime molto stringente e prevedeva il divieto generale di adibire il lavoratore a mansioni inferiori. Il lavoratore, dunque, doveva essere adibito unicamente alle mansioni per cui era stato assunto oppure a mansioni corrispondenti alla categoria professionale superiore eventualmente acquisita in seguito, oppure, a mansioni equivalenti a quelle effettivamente svolte, senza, in ogni caso, la possibilità di subire una riduzione della retribuzione.

La riforma del 2015, modificando il testo dell’art. 2103 del codice civile, ha disegnato un regime più flessibile ampliando il potere del datore di lavoro, il quale, in determinate circostanze e nel rispetto di precisi limiti, può adibire il lavoratore a mansioni inferiori.

Il datore di lavoro può esercitare questa facoltà in maniera orizzontale (adibendo il lavoratore a mansioni diverse da quelle previste al momento dell’assunzione ma comprese nello stesso livello di inquadramento) o verticale (adibendo il lavoratore a mansioni comprese in un diverso livello di inquadramento).

I commi 2 e 4 dell’art. 2103 individuano espressamente gli unici casi in cui il datore di lavoro può unilateralmente disporre il demansionamento del lavoratore:

  • modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore;
  • espressa previsione del contratto collettivo.

 

In tali ipotesi, dunque, il lavoratore può essere adibito a mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto. Tuttavia, la facoltà che il legislatore ha attribuito al datore è soggetta ad ulteriori limiti in quanto il lavoratore può essere adibito a mansioni inferiori purché le stesse rientrino all’interno della categoria di appartenenza (dirigenti, quadri, impiegati, operai). A titolo esemplificativo, dunque, un impiegato inquadrato nel livello 4 del contratto collettivo, potrà essere adibito a mansioni previste dall’inferiore livello 3 purché rientranti nella medesima categoria legale, cioè quella degli impiegati.

REQUISITI E PRESUPPOSTI DEL DEMANSIONAMENTO

Affinché il demansionamento sia valido, il datore di lavoro deve comunicare la sua decisione per iscritto e, se necessario, ha il dovere di provvedere alla formazione del dipendente in merito alle nuove mansioni.

È importante sottolineare che il demansionamento non ha conseguenze sulla retribuzione. Il lavoratore, nonostante venga adibito a mansioni inferiori, resta inquadrato nel medesimo livello contrattuale e conserva il diritto alla medesima retribuzione, ad eccezione degli elementi della retribuzione strettamente connessi alla mansione svolta in precedenza (ad esempio una particolare indennità prevista unicamente per la mansione precedentemente svolta).

Il demansionamento può anche essere frutto dell’accordo tra le parti (c.d. patto di demansionamento). Il lavoratore e il datore possono sottoscrivere un accordo in forza del quale si determina l’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori e all’inquadramento in un livello inferiore. Tali accordi, svantaggiosi per la dignità professionale del lavoratore, possono essere stipulati solo se soddisfano una delle seguenti esigenze del dipendente:

  • la conservazione del posto di lavoro al fine di evitare il licenziamento;
  • acquisizione di una diversa professionalità;
  • miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore (ad esempio il trasferimento in una sede più vicina alla propria residenza).

In forza di tali patti vengono modificati non solo le mansioni del dipendente ma anche il livello di inquadramento e la retribuzione. Al fine di tutelare il lavoratore, tali accordi sono considerati validi solo se sottoscritti in sede protetta (ad esempio presso una sede sindacale o presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro).

Con la riforma del 2015, dunque, il legislatore ha attenuato la disciplina del demansionamento e allargato le maglie del c.d. ius variandi e le possibilità di adibire i lavoratori a mansioni anche inferiori.

ALTRE IPOTESI DI DEMANSIONAMENTO

Al di fuori della disciplina dell’art. 2103 cc, il nostro ordinamento prevede altre ipotesi di demansionamento legittimo, previste per salvaguardare posto di lavoro del dipendente, ossia:

  • sopravvenuta inidoneità fisica o psicologica allo svolgimento della mansione;
  • tutela della lavoratrice in gravidanza fino a sette mesi dopo il parto.

Alla luce di questa panoramica relativa ai limiti e alle modalità di demansionamento, è evidente che in tutti i casi in cui il datore di lavoro imponga in maniera arbitraria un mutamento di mansioni senza il rispetto dei limiti previsti dalla legge, il demansionamento sarà illegittimo e il lavoratore, con l’ausilio di un avvocato del lavoro, potrà agire al fine di vedersi riconosciuta la qualifica corretta e riottenere l’assegnazione alle mansioni corrette. Nei casi più gravi, inoltre, il lavoratore potrà ottenere anche la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti in ragione del demansionamento.

L’art. 2103 del codice civile, infine, disciplina anche il caso in cui il lavoratore venga adibito a mansioni superiori rispetto a quelle per cui è stato assunto. In questo caso la norma prevede il diritto del lavoratore al riconoscimento del livello superiore e del relativo trattamento economico, qualora abbia svolto mansioni superiori per un periodo pari a 6 mesi consecutivi.

Fonte immagine: PxHere

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